TIPI DI CARATTERE INCONTRATI NEL LAVORO PSICOANALITICO

1916

Quando un medico effettua il trattamento psicoanalitico di un nevrotico, il suo interesse non è affatto rivolto, all'inizio, al carattere del paziente. Egli vorrebbe piuttosto conoscere il significato dei sintomi, quali impulsi istintuali si nascondono dietro di essi e sono da essi appagati, e quale percorso ha seguito il misterioso sentiero che ha portato dai desideri istintuali ai sintomi. Ma la tecnica che è costretto a seguire presto lo obbliga a dirigere la sua curiosità immediata verso altri obiettivi. Egli nota che la sua indagine è minacciata dalla resistenza oppostagli dal paziente, e questa resistenza può giustamente considerarla parte del carattere di quest'ultimo. Ed è su questo che il medico accentra ora il suo interesse.

Ciò che ostacola gli sforzi del medico non sono sempre quei tratti del carattere che il paziente riconosce in se stesso e che gli sono attribuiti dalle persone che lo circondano. Le peculiarità che egli sembrava avere solo in misura modesta sono spesso portate alla luce in una intensità sorprendentemente accresciuta, oppure si rilevano in lui atteggiamenti che non si erano mai notati negli altri rapporti della vita. Nelle pagine seguenti si descriveranno e si cercherà di tracciare alcuni di questi sorprendenti tratti del carattere.

1. Le «eccezioni»

Il lavoro psicoanalitico si trova continuamente di fronte al compito di indurre il paziente a rinunciare ai frutti del piacere immediato, ai frutti prontamente ottenibili. Non gli si chiede di rinunciare ad ogni piacere; questo, forse, non si potrebbe pretendere da nessun essere umano. La stessa religione è costretta ad appoggiare la richiesta di rifiutare il piacere terreno con la promessa di una quantità incomparabilmente maggiore di piacere più elevato in un altro mondo. No, al paziente si chiede solo di rinunciare a quelle soddisfazioni che avranno inevitabilmente conseguenze dannose. La sua privazione deve essere solo temporanea; egli deve solo imparare a scambiare un piacere immediato con un piacere più sicuro anche se posposto. O, in altre parole, sotto la guida del medico gli si chiede di avanzare dal principio del piacere al principio della realtà per il quale l'essere umano maturo si distingue dal bambino. In questo processo educativo, diffìcilmente si può dire che la maggiore capacità di comprendere del medico giochi un ruolo decisivo; di regola, egli può dire al suo paziente solo ciò che la ragione di costui può dirgli. Ma non è lo stesso sapere qualcosa della propria mente e sentirselo dire da un estraneo. Il medico svolge il ruolo di questo efficace estraneo; egli si serve dell'influenza che un essere umano esercita su di un altro. O - ricordando che è abitudine della psicoanalisi di sostituire ciò che è derivato con ciò che è originale e fondamentale - diciamo che il medico, nella sua opera educativa, si serve di uno dei componenti dell'amore. In questa nuova opera di educazione, egli probabilmente non fa che ripetere il processo che ha reso possibile all'inizio l'educazione di qualsiasi genere. Fianco a fianco con le esigenze della vita, l'amore è il grande educatore; ed è dall'amore di coloro che gli stanno più vicini che l'essere umano completo è indotto a rispettare le leggi della necessità e a risparmiarsi la punizione che segue ogni loro violazione.

In questo modo quando si chiede al paziente di rinunciare provvisoriamente ad una soddisfazione piacevole, di fare un sacrificio, di mostrarsi pronto ad accettare una sofferenza temporanea per amore di una meta migliore, o anche semplicemente di decidersi a sottomettersi a una necessità valida per tutti, si incontrano individui che resistono a tale appello per un motivo particolare. Essi dicono che hanno rinunciato abbastanza e sofferto abbastanza, e che hanno il diritto di essere risparmiati da ogni ulteriore richiesta; non si sottometteranno più a una spiacevole necessità, perché essi sono eccezioni e, inoltre, intendono restar tali. In un paziente questa pretesa era arrivata a tal punto di esagerazione da diventare convinzione d'essere vegliato da un angelo custode che lo avrebbe protetto da ogni sacrificio doloroso. Gli argomenti del medico non potranno nulla contro un'intima fiducia che si esprime con tale forza; anche la sua influenza, in verità, all'inizio è importante, e gli diventa chiara la necessità di dover scoprire le fonti da cui questa dannosa prevenzione è alimentata.

Ora, è senz'altro vero che ognuno vorrebbe considerarsi un'«eccezione» e vantare privilegi riguardo agli altri. Ma proprio a causa di ciò deve esserci una ragione particolare, e non universalmente presente, se qualcuno di fatto si proclama eccezione e si comporta come tale. Questa ragione può essere di vario genere. Nei casi da me studiati sono riuscito a scoprire una caratteristica comune nelle prime esperienze della vita di questi pazienti. Le loro nevrosi erano connesse a esperienze o sofferenze subite nella primissima infanzia, rispetto alle quali sapevano di non essere colpevoli, e che consideravano un ingiusto danno arrecato loro. I privilegi che rivendicavano come risultato di questa ingiustizia, e la riottosità da essa causata, avevano contribuito non poco a intensificare i conflitti che avevano portato poi all'affioramento delle nevrosi. In uno di questi pazienti, una donna, l'atteggiamento verso la vita di cui sto parlando giunse alla crisi decisiva quando apprese che un doloroso disturbo organico, il quale le aveva impedito di raggiungere gli scopi della sua vita, era di origine congenita. Finché aveva considerato questo male come acquisizione accidentale e posteriore alla nascita, l'aveva sopportato pazientemente; appena scoprì che faceva parte di una eredità innata, si ribellò. Il giovane uomo che credeva di essere vegliato da un angelo custode nell'infanzia era stato vittima di un'infezione accidentale contratta dalla balia, e aveva trascorso poi tutta la vita rivendicando un risarcimento, una pensione per infortunio, per così dire, senza sapere su che cosa basava queste pretese. Nel suo caso l'analisi, che ricostruì questo evento attraverso le oscure tracce mnestiche, fu confermata obbiettivamente dai suoi familiari.

Per ragioni facilmente comprensibili non posso dire molto di più su questa o su altre anamnesi. Né mi propongo di istituire l'ovvia analogia tra le deformazioni del carattere risultanti dalla prolungata malattia dell'infanzia e il comportamento di intere nazioni la cui storia passata sia stata piena di sofferenze. Coglierò, invece, l'occasione per parlare di un personaggio creato dal più grande dei poeti - un personaggio nel cui carattere la pretesa di essere un'eccezione è strettamente legata alla circostanza dello svantaggio congenito e da ciò motivata.

Nel monologo di apertura del Riccardo m di Shakespeare, Gloucester, che in seguito diverrà Re, dice:

Ma io, che non ho il corpo adatto ai giochi,

Né fatto per piacere a uno specchio amoroso;

Io che ho forme rozze, e manco della maestà dell'amore

Per pavoneggiarmi davanti a una gaia ninfa che inceda con grazia;

Io, che sono defraudato di proporzioni armoniose,

Truffato di fattezze dalla Natura malvagia,

Deforme, abbozzato, scaraventato anzitempo

In questo mondo di vivi, appena fatto a metà,

E così storpio e incompiuto,

Che i cani mi abbaiano dietro;

E quindi, giacché non posso essere amante,

E far belli e allegri questi giorni,

Ho determinato d'essere malvagio,

Odiando i piaceri frivoli di questi tempi.

A prima vista può forse sembrare che questa invettiva non abbia alcun rapporto con il nostro argomento. Riccardo non sembra dire altro che questo: «lo trovo tediosi questi tempi oziosi, e voglio divertirmi. Siccome, a causa della mia deformità, non posso essere amante, sarò malvagio, intrigherò, ucciderò e farò tutto ciò che mi va». Una tale frivola motivazione non potrebbe smorzare qualsiasi moto di simpatia nel pubblico, se non fosse uno schermo per nascondere qualcosa di molto più grave. Altrimenti la tragedia sarebbe psicologicamente impossibile, poiché lo scrittore ci deve saper dare uno sfogo segreto di simpatia per il suo eroe, se dobbiamo ammirarne l'audacia e la destrezza senza ribellarci tra noi e noi; e tale simpatia può basarsi solo sulla comprensione per lui o su un qualche senso di interna solidarietà.

Penso quindi, che il monologo di Riccardo non dica tutto; esso dà solo dei cenni, e lascia a noi completare le cose a cui accenna. Quando lo facciamo, comunque, l'apparente frivolezza svanisce, l'amarezza e la minuziosità con cui Riccardo ha descritto la sua deformità fanno sentire tutto il loro effetto, e noi percepiamo chiaramente la solidarietà che stimola la nostra simpatia anche per un malvagio del suo genere. Pertanto il monologo significa: «La Natura mi ha fatto un torto crudele, negandomi la bellezza del corpo che conquista l'amore umano. La vita mi deve una riparazione per questo, ed io l'otterrò. Ho il diritto di essere un'eccezione, di ignorare gli scrupoli dai quali gli altri si lasciano trattenere. Posso fare del male anche io perché a me è stato fatto del male». Ed ora sentiamo che anche noi potremmo diventare come Riccardo, e che anzi, su scala ridotta, lo siamo già. Riccardo è un enorme ingrandimento di qualcosa che troviamo anche in noi. Tutti pensiamo di aver ragione a rimproverare la Natura e il nostro destino per i danni congeniti e dell'infanzia; noi esigiamo riparazione per le primissime ferite inferte al nostro narcisismo, al nostro amor proprio. Perché la Natura non ci ha dato i riccioli d'oro di Balder o la forza di Sigfrido o l'alta fronte del genio o il nobile profilo dell'aristocratico? Perché siamo nati in una casa della classe media invece che in un palazzo reale? Non sapremmo portare la bellezza e la distinzione con la stessa grazia di coloro che ora siamo costretti a invidiare per queste qualità?

E, comunque, per una sottile economia dell'arte che il poeta non permette al suo eroe di dare espressione aperta e completa a tutti i suoi motivi segreti. Con questo mezzo egli costringe noi a completarli; egli impegna la nostra attività intellettuale, la svia dalla riflessione critica e ci fa identificare strettamente col suo eroe. Al suo posto un abborracciatore darebbe espressione conscia a tutto ciò che desidera rivelarci, e quindi si troverebbe di fronte alla nostra intelligenza fredda e libera, il che precluderebbe ogni intensificazione della illusione.

Prima di lasciare le «eccezioni», comunque, possiamo dire che la pretesa delle donne al privilegio e all'esenzione da tante molestie della vita riposa sullo stesso fondamento. Come apprendiamo dal lavoro psicoanalitico, le donne ritengono di essere state danneggiate nell'infanzia, di essere state immeritatamente private di qualcosa e trattate ingiustamente; il rancore di tante figlie contro la madre deriva, in ultima analisi, dal rimprovero che le muovono per averle messe al mondo come donne invece che come uomini.

2. I rovinati dal successo

Il lavoro psicoanalitico ci ha fornito la tesi che la gente si ammala di nevrosi in conseguenza della frustrazione, ossia la frustrazione dell'appagamento dei loro desideri libidici. Per rendere intelligibile questa tesi è necessaria una digressione. Perché si generi una nevrosi ci deve essere un conflitto tra i desideri libidici di una persona e la parte della sua personalità che chiamiamo il suo Io, il quale è l'espressione del suo istinto di autoconservazione e che include anche gli ideali della sua personalità. Un conflitto patogeno di questo genere ha luogo solo quando la libido cerca di seguire sentieri e scopi che l'Io ha già da tempo superato e condannato ed ha quindi proibito per sempre; e questo la libido lo fa solo se è privata della possibilità di un appagamento ideale egosintonico. Di qui la privazione, ovvero la frustrazione di un appagamento reale, è la condizione prima per la generazione di una nevrosi, sebbene, a dire il vero, non è affatto la sola.

Tanto più sorprendente, e addirittura sbalorditivo, deve apparire quando, in qualità di medico, si scopre che la gente talvolta si ammala proprio quando si è realizzato un desiderio profondamente radicato e a lungo nutrito. Sembra allora come se queste persone non possano tollerare la loro felicità; che non può esservi dubbio ci sia una connessione causale tra il loro successo e il loro ammalarsi.

Ho avuto l'opportunità di studiare la storia di una donna, che indico come esempio tipico di questi tragici accadimenti. Era una donna bennata e ben educata, ma da ragazza non potendo reprimere la gioia di vivere scappò di casa e vagò per il mondo in cerca di avventure, finché non conobbe un artista che apprezzò il suo fascino femminile ma che indovinò anche, nonostante fosse caduta così in basso, le qualità nobili che possedeva. Si misero a vivere insieme, ed ella si dimostrò una compagna fedele; pareva avere bisogno solo della riabilitazione sociale per raggiungere la completa felicità. Dopo molti anni di vita in comune, egli riuscì a farla accettare dai propri familiari, e quindi fu pronto a sposarla legalmente. A questo punto cominciò il tracollo della donna. Trascurava la casa di cui stava per diventare padrona di diritto, si immaginava perseguitata dai parenti dell'uomo, i quali volevano accoglierla nella loro famiglia, vietava al suo amante, con la propria insensata gelosia, ogni rapporto sociale, lo ostacolava nel suo lavoro artistico, e in breve dovette soccombere a una malattia mentale incurabile.

Un'altra volta mi si presentò il caso di un uomo rispettabilissimo, un professore universitario, il quale per molti anni aveva nutrito il naturale desiderio di succedere al maestro che lo aveva iniziato agli studi. Quando il maestro si ritirò, e i suoi colleghi lo informarono che era stato chiamato lui a succedergli, cominciò ad esitare, a deprezzare i propri meriti, a dichiararsi indegno di occupare quel posto, e cadde in uno stato di melancolia che lo rese inabile ad ogni attività per alcuni anni.

Per quanto differenti siano sotto altri aspetti, i due casi tuttavia coincidono su questo punto: la malattia seguì immediatamente alla realizzazione di un desiderio e mise fine a tutto il godimento.

La contraddizione tra tali esperienze e la regola che quel che provoca la malattia è la frustrazione, non è insolubile. Essa scompare se facciamo la distinzione tra una frustrazione esterna e una interna. Se l'oggetto in cui la libido può provare il suo appagamento è negato nella realtà, abbiamo una frustrazione esterna. In se stessa questa non è operativa, né patogenica, finché ad essa non si aggiunge una frustrazione interna. Questa deve procedere dall'Io e deve contendere alla libido l'accesso agli altri oggetti, che essa cerca di ottenere. Soltanto allora sorge un conflitto, e la possibilità di una malattia nevrotica, cioè di un appagamento sostitutivo raggiunto tortuosamente per mezzo dell'inconscio rimosso. La frustrazione interna, quindi, è potenzialmente presente in ogni caso, solo che non entra in funzione finché la frustrazione esterna reale non le abbia spianato la strada.

Nei casi eccezionali in cui le persone si ammalano per il successo, la frustrazione interna ha agito da sola; in verità si è manifestata solo dopo che una frustrazione esterna è stata sostituita dalla realizzazione del desiderio. A prima vista c'è qualcosa di strano in questo; ma considerando più a fondo la cosa, vedremo che non è affatto insolito per l'Io tollerare un desiderio, ritenendolo innocuo finché esiste solo nella fantasia e sembra lontano dalla realizzazione, mentre l'Io si difenderà energicamente da un tale desiderio appena la realizzazione di questo si avvicina ed esso minaccia di diventare realtà. La distinzione tra questa situazione e quelle familiari nella formazione della nevrosi è semplicemente questa: di solito sono le intensificazioni interne della carica libidica a trasformare la fantasia, finora trascurata e tollerata, in un temuto avversario, mentre in questi nostri casi il segnale dello scoppio del conflitto è dato da un cambiamento esterno reale.

Al lavoro analitico non è difficile mostrarci che sono le forze della coscienza a vietare al soggetto di ottenere il vantaggio da tempo sperato dal fortunato mutamento avvenuto nella realtà. È un compito difficile comunque scoprire l'essenza e l'origine di queste tendenze a giudicare e a punire, che tanto spesso ci sorprendono perché le incontriamo dove non ci aspettiamo di trovarle. Per le solite ragioni non parlerò di ciò che sappiamo o pensiamo sull'argomento in relazione ai casi clinici, bensì in relazione ai personaggi che i grandi scrittori hanno creato nella loro profonda conoscenza dell'anima e della psiche umana.

Possiamo prendere come esempio di una persona che crolla dopo aver raggiunto il successo, per il quale si è battuta con tutte le sue forze, il personaggio shakespeariano di Lady Mac-beth. Al principio in lei non c'è nessun'esitazione, nessun segno di conflitto interno, nessuno sforzo se non quello di vincere gli scrupoli del marito ambizioso e tuttavia indeciso. Ella è pronta a sacrificare anche la femminilità alla propria intenzione omicida, senza riflettere sul ruolo decisivo che questa  femminilità  deve  giocare quando in seguito sorge la questione di preservare lo scopo della sua ambizione, raggiunto attraverso un crimine.

Venite, spiriti

Che attendete ai pensieri mortali, rendetemi risoluta, virile,

... Venite al mio seno di donna,

Prendete il mio latte in cambio di fiele, ministri del delitto!

(Atto I, Sc. 5)

... Ho allattato, e so

Come è dolce amare il bimbo che nutro:

Mentre mi sorrideva,

Gli avrei strappato il capezzolo dalle gengive inermi

E sfracellato le cervella, se avessi giurato come voi

Avete giurato su questo.

(Atto l, Sc. 7)

Una sola flebile scossa di riluttanza la colpisce prima dell'atto:

... Se non fosse somigliato

A mio padre mentre dormiva, lo avrei fatto...

(Atto II, Sc. 2)

Poi, divenuta regina con l'assassinio di Duncan ella tradisce per un momento qualcosa di simile al disappunto, qualcosa di simile alla disillusione. Non sappiamo perché.

... Non si ha nulla, tutto è compiuto,

Dove il desiderio si realizza, senza contenuto:

E' meglio essere ciò che distruggiamo,

Che con la distruzione vivere in dubbia gioia.

(Atto III, Sc. 2)

Tuttavia ella resiste. Nella scena del banchetto che segue a queste parole, solo lei conserva il sangue freddo, nasconde lo stato di confusione del marito e trova un pretesto per congedare gli ospiti, quindi esce. La vediamo poi nella scena della sonnambula nell'ultimo atto, ossessionata dalle impressioni della notte del delitto. Adesso, come allora, cerca di dar coraggio al marito:

Vergogna, Signore, vergogna! un soldato, e hai paura? Perché temere chi sa, quando nessuno potrà mettere in discussione il nostro potere?

(Atto V, Sc. 1)

Ella ode il bussare alla porta che ha terrorizzato il marito dopo l'atto. Ma allo stesso tempo cerca di «disfare l'azione che non può essere disfatta». Si lava le mani, sporche di sangue e che odorano di sangue, ma è conscia della futilità del tentativo. Ella che era sembrata così priva di rimorsi sembra ora essere stata sopraffatta dal rimorso. Quando lei muore, Macbeth, che intanto è diventato inesorabile quanto lo era stata lei all'inizio, sa trovare per la donna solo un breve epitaffio:

Sarebbe dovuta morire in futuro:

Ci sarebbe stato un tempo per questa parola.

(Atto V, Sc. 5)

Ed ora chiediamoci che cosa abbia fatto crollare questo personaggio che sembrava forgiato nel metallo più duro. È solo la disillusione - l'aspetto diverso mostrato dall'atto compiuto - e dobbiamo dedurre che anche in Lady Macbeth una natura originariamente mite e femminile è stata stimolata fino a una concentrazione ed a una tensione tale che non potevano resistere a lungo, o dovremmo cercare i segni di una motivazione più profonda che ci renda umanamente intelligibile questo crollo?

Mi pare impossibile giungere a una qualsiasi conclusione. Il Macbeth di Shakespeare è una pièce d'occasion, scritto per l'ascesa al trono di Giacomo, il quale era stato fino allora Re di Scozia. La trama era bella e pronta, ed era stata trattata da altri scrittori contemporanei del cui lavoro Shakespeare probabilmente si servì come era solito fare. Essa presentava notevoli analogie con la situazione reale. Elisabetta, la regina vergine, di cui si mormorava che non poteva avere bambini e che alla notizia della nascita di Giacomo si era definita «uno sterile tronco»1 [Cfr. Macbeth, atto III, scena I:Sulla testa m'hanno posto una corona infruttuosa/ e nel pugno uno sterile scettro,/per essermi strappati da stirpe non mia,/ che figli non ho per la successione...), in un grido di angoscia fu costretta proprio da questa sua sterilità a nominare suo successore il re scozzese. E questi era figlio di Maria Stuarda la cui esecuzione era stata, anche se con riluttanza, da lei stessa ordinata, e che, nonostante l'annuvolamento dei loro rapporti dovuto a interessi politici, era tuttavia del suo stesso sangue e, si potrebbe dire, sua ospite.

L'ascesa di Giacomo i fu come una dimostrazione della maledizione dell'infecondità e delle benedizioni della generazione continua. E l'azione del Macbeth di Shakespeare si basa su questo stesso contrasto.

Le tre streghe assicurarono Macbeth che egli sarebbe diventato re, ma a Banquo promisero che i suoi figli sarebbero succeduti alla corona. Macbeth è furibondo per questo verdetto del destino. Egli non è contento dell'appagamento della propria ambizione. Egli vuole fondare una dinastia - non vuole aver ucciso a beneficio di estranei. Se l'opera di Shakespeare si considera solo come una tragedia dell'ambizione questo punto è trascurato. E' chiaro che Macbeth non può vivere eternamente, e pertanto egli ha un solo modo per far sì che la parte della profezia che gli è contraria non si avveri e cioè, avere dei figli che possano succedergli. E sembra aspettarli dalla indomita moglie:

Dammi solo figli maschi!

Che il tuo coraggio intrepido non potrebbe creare

che maschi...

(Atto I, Sc. 7)

Ed è egualmente chiaro che se viene deluso in questa aspettativa deve sottomettersi al destino; altrimenti le sue azioni perdono ogni scopo e si trasformano nella cieca furia di un uomo condannato alla rovina, il quale è deciso a distruggere prima tutto ciò che gli è possibile. Vediamo Macbeth attraverso queste fasi, e al culmine della tragedia sentiamo il grido lacerante di Macduff, di cui si è vista spesso l'ambiguità e che può forse contenere la chiave del mutamento avvenuto in Macbeth:

Non ha figli!

(Atto IV, Sc. 3)

Questo indubbiamente significa: «Solo perché non ha figli potrebbe uccidere i miei». Ma può esservi dell'altro, e soprattutto potrebbe mettere a nudo il motivo più profondo che non solo costringe Macbeth ad andare ben al di là della propria natura, ma tocca anche il duro carattere della moglie nell'unico punto debole. Se si guarda tutta l'opera dall'apice segnato da queste parole di Macduff, si vede che è cosparsa di riferimenti al rapporto padre-figli. L'assassinio del buon Duncan è poco meno di un parricidio; nel caso di Banquo, Macbeth uccide il padre mentre il figlio gli sfugge; e in quello di Macduff, uccide i figli perché il padre gli è sfuggito. Un bambino insanguinato e quindi uno incoronato gli sono mostrati dalle streghe nella scena dell'apparizione; la testa armata che si vede prima è senza dubbio quella dello stesso Macbeth. Ma sullo sfondo si leva la sinistra figura del vendicatore, Macduff, il quale è anch'egli un'eccezione alle leggi della generazione, giacché non nacque da sua madre ma le fu strappato dal grembo.

Sarebbe un esempio perfetto di giustizia poetica secondo la legge del taglione se l'essere senza figli di Macbeth e la sterilità di sua moglie fossero la punizione dei loro crimini commessi contro la santità della generazione - se Macbeth non potesse diventare padre per avere orbato i figli del padre e un padre dei figli, e se Lady Macbeth soffrisse della virilità che aveva domandato agli spiriti del delitto. Io credo che la malattia di Lady Macbeth, la trasformazione della sua durezza in penitenza, possa spiegarsi come una reazione diretta alla sua sterilità, per la quale è convinta della sua impotenza contro le leggi della natura. Nello stesso tempo la sterilità le ricorda che è per colpa sua se il crimine è stato privato della parte migliore dei suoi frutti.

Nella Cronaca di Holinshed (1577), da cui Shakespeare trasse la trama di Macbeth, Lady Macbeth è menzionata solo una volta come la moglie ambiziosa che istiga il marito a uccidere perché lei possa diventare regina. Non si accenna al suo destino successivo e allo sviluppo del suo carattere. D'altro canto, sembra che la trasformazione di Macbeth in un tiranno assetato di sangue sia attribuita agli stessi motivi che noi abbiamo qui suggerito. Poiché in Holinshed passano dieci anni tra l'assassinio di Duncan, mediante il quale Macbeth diventa re, e i suoi ulteriori misfatti, e in questi dieci anni egli è mostrato come un governante inflessibile ma giusto. Solo dopo questo lasso di tempo comincia la sua trasformazione, sotto l'influenza della tormentosa paura che la profezia fatta a Banquo possa realizzarsi come si è realizzata la profezia del proprio destino. Solo allora decide di uccidere Banquo, e, come in Shakespeare, è spinto da un crimine all'altro. In Holinshed non si afferma chiaramente che fosse il fatto di non aver figli a spingerlo a questi atti, ma è dedicato abbastanza tempo e spazio a questo plausibile motivo. Non così in Shakespeare. Nella tragedia gli eventi si susseguono senza un attimo di respiro, sicché a giudicare dalle dichiarazioni fatte dai personaggi l'azione si svolge nell'arco di circa una settimana 2 (Cfr. Darmesteter, 1881, LXXV). Questa accelerazione fa venir meno i motivi che noi abbiamo costruito per spiegare la trasformazione del carattere di Macbeth e di sua moglie. Non c'è tempo per una prolungata delusione delle loro speranze di avere bambini per abbattere la donna, e per spingere l'uomo alla furia ribelle; e resta la contraddizione che anche se tante sottili interrelazioni nella trama, e tra essa e la sua occasione, indicano una comune origine nel tema della sterilità, tuttavia nella tragedia l'economia del tempo preclude chiaramente uno sviluppo del carattere da motivi che non siano quelli inerenti all'azione stessa.

Quali, comunque, possano essere stati questi motivi che in così breve tempo poterono trasformare l'esitante, ambizioso uomo in uno sfrenato tiranno, e la sua istigatrice dal cuore di sasso in una donna malata tormentata dal rimorso, è, a mio avviso, impossibile indovinare. Dobbiamo, penso, abbandonare qualunque speranza di penetrare il triplice strato di oscurità in cui si sono condensati il cattivo stato di conservazione del testo, l'intenzione sconosciuta del drammaturgo, e il senso nascosto della leggenda. Ma io non sottoscriverei l'obbiezione secondo cui indagini di questo genere sono inutili di fronte al potente effetto che la tragedia ha sullo spettatore. Il drammaturgo può invero, durante la rappresentazione, sommergerci con la sua arte e paralizzare la nostra facoltà di riflettere; ma egli non può impedirci di tentare in seguito di afferrarne l'effetto studiandone il meccanismo psicologico. Né mi sembra attinente in questo caso l'assunto secondo cui un drammaturgo è libero di abbreviare a suo piacere la cronologia naturale degli eventi che ci presenta, se col sacrificio della probabilità comune può accrescere l'effetto drammatico, che un sacrificio tale è giustificato solo quando interferisce semplicemente con la probabilità3 (Come nel corteggiamento di Riccardo III ad Anna davanti al catafalco del re da lui assassinato) e non quando rompe la connessione causale; inoltre, l'effetto drammatico non ne risentirebbe affatto se l'arco di tempo fosse lasciato indeterminato invece di essere esplicitamente limitato a pochi giorni.

Si è così riluttanti ad abbandonare un problema come quello di Macbeth, dichiarandolo insolubile, che oso proporre una nuova interpretazione che potrebbe offrire un'altra via di uscita dalle difficoltà. Ludwig Jekels, in un recente studio shakespeariano, pensa di aver scoperto una particolare tecnica del poeta, che potrebbe applicarsi a Macbeth. Egli crede che Shakespeare spesso divida un personaggio in due figure diverse, che, prese separatamente, non sono completamente comprensibili e non lo diventano finché non vengono nuovamente riunite. Potrebbe essere così anche per Macbeth e Lady Macbeth. In tal caso sarebbe, naturalmente, futile considerare lei come un personaggio indipendente e cercare di scoprire i motivi della sua trasformazione senza considerare il Macbeth che la completa. Non seguirò ulteriormente questo indizio, ma, tuttavia, vorrei indicare qualcosa a conferma di questo punto di vista: i germi della paura che assalgono Macbeth la notte del delitto non si sviluppano ulteriormente in lui ma in lei4 (Cfr. Darmesteter, cit.). E' lui ad avere l'allucinazione del pugnale prima del crimine; ma è lei che in seguito viene colpita da una malattia mentale. E' lui che dopo il delitto sente in casa il grido: «Non dormire più! Macbeth uccide il sonno...» e così «Macbeth non dormirà più»; ma noi non sentiamo mai che lui non ha più dormito, mentre la regina, come possiamo vedere si alza dal letto e, parlando nel sonno, tradisce la sua colpa. E' lui che sta lì impotente con le mani insanguinate, lamentandosi che «neppure tutto l'oceano del grande Nettuno» le pulirà, mentre lei lo conforta: «Un po' d'acqua ci monderà di quest'atto»; ma poi è lei che si lava le mani per un quarto d'ora senza riuscire a liberarsi dalle macchie di sangue: «Tutti i profumi d'Arabia non purificheranno questa piccola mano». Così ciò che egli ha temuto nei suoi rimorsi di coscienza, si realizza in lei; ella diventa tutta rimorso ed egli tutto sfida. Insieme esauriscono le possibilità di reazione al crimine, come due parti disunite di una singola individualità psichica, e può darsi che entrambi siano basati su un unico prototipo.

Se non abbiamo potuto rispondere alla questione del crollo di Lady Macbeth dopo il successo, possiamo forse aver miglior fortuna quando consideriamo la creazione di un altro grande drammaturgo che ama affrontare problemi di responsabilità psicologica con vigore inflessibile.

Rebecca Gamvi, figlia di un'ostetrica, è stata educata dal padre adottivo, il dottor West, a essere una libera pensatrice ed a disprezzare le restrizioni che una moralità fondata sulla credenza religiosa cerca di imporre ai desideri della vita. Dopo la morte del dottore ella trova un posto a Rosmersholm, la casa, da molte generazioni, di un'antica famiglia, i cui membri non conoscono l'allegria e hanno sacrificato la gioia al rigido compimento del dovere. I suoi componenti sono un ex pastore, Johannes Rosmer, e sua moglie invalida, la sterile Beata. Sopraffatta da «una selvaggia incontrollabile passione», per l'amore dell'aristocratico Rosmer, Rebecca decide di rimuovere l'ostacolo rappresentato dalla moglie, e a questo fine si serve della sua volontà «impavida e libera», non frenata da scrupoli. Ella fa in modo che Beata legga un libro medico in cui la meta del matrimonio è rappresentata come consistente nel mettere al mondo dei figli, sicché la povera donna comincia a dubitare della giustificabilità del proprio. Rebecca allora le accenna che Rosmer, di cui condivide studi e idee, sta per abbandonare la vecchia fede ed entrare nel «partito dell'illuminismo»; e dopo aver così scosso la fiducia della moglie nell'integrità morale del marito, le fa infine capire che lei, Rebecca, presto lascerà la casa per nascondere le conseguenze del suo rapporto illecito con Rosmer. Il piano criminale riesce. La povera moglie, depressa e ormai irresponsabile, si getta dalla strada che costeggia il mulino nella corrente d'acqua che aziona le sue ruote, posseduta dal senso della propria inutilità e non desiderando più frapporsi tra il marito amato e la sua felicità.

Per più di un anno Rebecca e Rosmer vivono soli a Rosmersholm uniti da una relazione che egli vuole considerare un'amicizia puramente intellettuale e ideale. Ma quando sulla relazione cominciano ad addensarsi le prime nuvole dovute ai pettegolezzi del mondo esterno, e nello stesso tempo in Rosmer cominciano a sorgere tormentosi dubbi circa i motivi per cui sua moglie si è uccisa, egli prega Rebecca di diventare la sua seconda moglie, affinché possano contrapporre all'infelice passato una nuova realtà vivente (II). Per un istante ella esclama di gioia alla sua proposta, ma subito dopo dichiara che non è possibile, e che se egli insisterà ancora, ella «seguirà la strada di Beata». Rosmer non capisce questo rifiuto; e noi ancora meno, perché sappiamo di più sulle azioni e sui disegni di Rebecca. Tutto ciò di cui possiamo essere certi, è che il suo «no» è sincero.

Come può avvenire che l'avventuriera dalla volontà «impavida e libera», che ha proceduto impietosamente sulla propria strada verso la meta desiderata, rifiuti ora di cogliere il frutto del successo che le viene offerto? Ella stessa ce ne dà la spiegazione nel quarto atto: «questa è la pena più terribile: ora, quando tutta la felicità della vita è a portata di mano, il mio cuore è cambiato e il mio passato me lo nega». Vale a dire, ella nel frattempo è diventata un essere diverso; la sua coscienza si è svegliata, ella ha acquistato un senso di colpa che si frappone tra lei e la felicità.

E che cosa le ha svegliato la coscienza? Ascoltiamo lei stessa, e quindi vediamo se possiamo crederle completamente.

«E la veduta rosmeriana della vita - o comunque la tua veduta della vita - che ha infettato la mia volontà... E l'ha resa malata. Schiava delle leggi che prima non avevano potere su di me. Da te - dalla vita con te - è stata nobilitata la mia mente.»

Questa influenza, dobbiamo inoltre capire, è diventata efficace soltanto da quando ella ha potuto vivere sola con Ro-smer: «Nella quiete - nella solitudine - quando tu mi mostravi tutti i tuoi pensieri, senza riserva - ogni sentimento tenero e delicato, così come ti veniva - allora è avvenuta in me la grande trasformazione».

Poco prima ella si è lamentata dell'altro aspetto della trasformazione: «Perché Rosmersholm ha logorato la mia forza. Qui alla mia vecchia volontà impavida sono state tarpate le ali. Essa è paralizzata! È passato il tempo quando avevo il coraggio di fare qualsiasi cosa al mondo. Ho perso la forza di agire, Rosmer».

Rebecca fa questa dichiarazione dopo essersi rivelata una criminale in una confessione volontaria davanti a Rosmer e al rettore Kroll, fratello della donna uccisa. Ibsen ha chiarito con lievi tocchi di magistrale sottigliezza che Rebecca non mentisce veramente, ma non è nemmeno completamente sincera. Così come, malgrado tutta la libertà dai pregiudizi, ella ha sottratto un anno alla propria età, nello stesso modo la sua confessione fatta ai due uomini è incompleta, e dietro l'insistenza di Kroll viene arricchita su certi punti importanti. Di qui siamo liberi di supporre che la sua spiegazione della rinuncia espone un motivo solo per nasconderne un altro.

Certo, non abbiamo nessuna ragione per non crederle quando dichiara che l'atmosfera di Rosmersholm e la sua vita in comune con Rosmer l'hanno nobilitata - e paralizzata. Qui ella esprime ciò che sa e ha sentito. Ma questo non è necessariamente tutto ciò che è accaduto in lei, né è necessario che abbia capito tutto quanto è accaduto. L'influenza di Rosmer può essere stata solo uno schermo che nascondeva un'altra influenza operante su di lei; e in verità c'è una notevole indicazione che ci porta su quest'altra direzione.

Anche dopo la confessione, Rosmer, nella loro ultima conversazione, con la quale termina il dramma, prega Rebecca nuovamente di diventare sua moglie. Egli le perdona il crimine che ha commesso per amore di lui. Ed ora ella non risponde, come dovrebbe, che nessun perdono può liberarla dal senso di colpa che la perseguita dal tempo del malvagio inganno della povera Beata; ma ella muove a se stessa un altro rimprovero che ci sorprende sembrandoci strano dal momento che viene da questa libera pensatrice, e non merita l'importanza che Rebecca gli attribuisce: «Caro - non parlare mai più di questo! È impossibile! Perché tu devi sapere, Rosmer, che ho un passato dietro di me». Ella vuol dire, naturalmente, che ha avuto rapporti sessuali con un altro uomo; e noi non possiamo non osservare che questi rapporti avvenuti quando era libera e non doveva rendere conto a nessuno, le sembrano un ostacolo più grande all'unione con Rosmer del suo comportamento effettivamente criminale verso sua moglie.

Rosmer si rifiuta di ascoltare qualcosa di questo passato, che noi possiamo indovinare, sebbene nel dramma tutto ciò che si riferisce ad esso è, per così dire, sotterraneo e si deve ricostruire dai vari accenni. Ma questi accenni, tuttavia, sono inseriti con uile arte che è impossibile fraintenderli.

Tra il primo rifiuto di Rebecca e la sua confessione accade qualcosa che ha un'influenza decisiva sul suo destino futuro. Il rettore Kroll un giorno si reca da Rebecca con lo scopo di umiliarla dicendo di sapere che ella è una figlia illegittima, la figlia cioè dello stesso dottore West, il quale l'aveva adottata dopo la morte di sua madre. L'odio ha affinato le percezioni di Kroll, ma tuttavia non suppone che questo fatto è una novità per lei. «Veramente non pensavo che lo ignoraste, altrimenti sarebbe stato molto strano farvi adottare dal dottor West...» «E poi vi accoglie in casa sua appena muore vostra madre. Vi tratta con durezza. E tuttavia restate con lui. Voi sapete che non vi lascerà un centesimo - e infatti avete solo una cassa di libri - e tuttavia ci restate; lo tollerate; lo accudite fino alla fine...» «Io attribuisco le vostre cure per lui al naturale istinto filiale di una figlia. In verità, credo che tutta la vostra condotta sia una conseguenza naturale della vostra origine.»

Ma Kroll si sbaglia. Rebecca non aveva la minima idea che potesse essere la figlia del dottor West. Quando Kroll cominciò con i suoi oscuri accenni al passato, ella deve aver pensato che si riferisse a qualcosa d'altro. Dopo aver capito il significato delle parole di Kroll, ella conserva ancora per un po' la padronanza di sé perché può supporre che il suo nemico basi i propri calcoli sulla sua età sulla quale in precedenza gli aveva mentito. Ma Kroll demolisce questa obbiezione dicendo: «Bene, sia pure, ma nondimeno il mio calcolo può essere giusto: perché il dottor West era lì per una breve visita l'anno prima che ricevesse la carica». Dopo questa nuova informazione ella perde l'autocontrollo. «Non è vero!» Va su e giù tormentandosi le mani. «È impossibile. Voi volete ingannarmi perché io creda a questo^. Questo non può, mai mai essere vero. Non può essere vero. È totalmente impossibile!» -

L'agitazione della donna è tale che Kroll non può attribuirla alla sua notizia soltanto.

Kroll: «Ma, mia cara Signorina West - perché in nome del cielo siete tanto sconvolta? Mi fate davvero paura. Che cosa devo pensare - credere?».

Rebecca: «Niente. Voi non dovete pensare né credere niente».

Kroll: «Allora dovete proprio dirmi come potete prendere così terribilmente a cuore questa^ faccenda - questa possibilità».

Rebecca (controllandosi): «E semplicissimo, Rettore Kroll, jo non desidero essere scambiata per una figlia illegittima».

L'enigma del comportamento di Rebecca può avere solo una soluzione. La notizia che il dottor West era suo padre è il colpo più grave che possa ricevere, perché ella non solo era la sua figlia adottiva ma era stata anche la sua amante. Quando Kroll cominciò a parlare, ella pensò che stesse accennando a queste relazioni, di cui probabilmente avrebbe ammesso la verità e le avrebbe giustificate con le sue idee emancipate. Ma questo era ben lungi dall'intenzione del rettore. Egli non sapeva nulla del rapporto col dottor West, così come lei non sapeva di essere sua figlia. Ella non può avere altro in mente se non questo rapporto quando spiega la ragione del suo rifiuto finale a Rosmer col fatto che ha avuto un passato che la rende indegna di essere sua moglie. E probabilmente, se Rosmer avesse acconsentito a farsi raccontare quel passato, ella avrebbe confessato solo a metà il suo segreto e avrebbe taciuto sulla parte più grave.

Ma ora noi capiamo, naturalmente, che questo passato doveva sembrarle l'ostacolo più serio alla loro unione - il crimine più grave.

Dopo aver saputo di essere stata l'amante di suo padre, ella si arrende completamente al senso di colpa che ora la domina. Ella confessa tutto a Rosmer e a Kroll, il quale la bolla come assassina; ella respinge per sempre la felicità per la quale si era spianata la strada col crimine, e si prepara a partire. Ma il vero motivo del suo senso di colpa, che determina la sua rovina a successo ottenuto, resta un segreto. Come abbiamo visto, è qualcosa di completamente diverso dall'atmosfera di Rosmersholm e dall'influenza nobilitante di Rosmer.

A questo punto nessuno di coloro che ci hanno seguiti mancherà di sollevare un'obbiezione che potrebbe giustificare qualche dubbio. Il primo rifiuto che Rebecca oppone a Rosmer avviene prima della seconda visita di Kroll, e perciò prima che questi le parli della sua origine illegittima, e in un momento in cui ella non sa ancora nulla del suo incesto - se abbiamo ben capito il drammaturgo. Tuttavia questo primo rifiuto è energico e convinto. Il senso di colpa che la fa rinunciare al frutto delle sue azioni è pertanto in funzione già prima che sappia qualcosa del suo peccato cardinale; se ammettiamo questo, dovremmo forse scartare del tutto l'incesto quale fonte di quel senso di colpa.

Finora abbiamo trattato Rebecca West come se fosse una persona vivente e non una creazione dell'immaginazione di Ibsen, che è sempre governata dalla massima intelligenza critica. Possiamo perciò tentare di comportarci nello stesso modo di fronte all'obbiezione sollevata. L'obbiezione è valida: prima di venire a conoscere del suo incesto, la coscienza si era in parte già svegliata in Rebecca; e non c'è nulla che ci vieti di attribuire questo cambiamento all'influenza che è riconosciuta e incolpata dalla stessa Rebecca. Ma questo non ci esime dal riconoscere il secondo motivo. Il comportamento di Rebecca quando sente ciò che Kroll ha da dirle, la confessione, che è la sua reazione immediata, non lascia dubbi sul fatto che solo allora comincia^ ad aver effetto il motivo più forte e decisivo della rinuncia. E infatti un caso di motivazione multipla, in cui un motivo più profondo si scorge dietro quello più superficiale. Le leggi dell'economia poetica richiedono questo modo di presentare la situazione, poiché questo motivo più profondo non si potrebbe enunciare esplicitamente. Esso doveva restare celato, e lo spettatore o il lettore non dovevano intuirlo facilmente; altrimenti sarebbero potute sorgere serie resistenze, basate sulle emozioni più angosciose, che avrebbero potuto compromettere l'effetto del dramma.

Abbiamo, comunque, il diritto di esigere che il motivo esplicito non sia privo di una connessione interna con quello nascosto, ma che appaia come una mitigazione del secondo e una derivazione da questo. E se possiamo fondarci sul fatto che la combinazione creativa conscia del drammaturgo discende logicamente da premesse inconsce possiamo ora tentare di dimostrare che ha soddisfatto questa esigenza. Il senso di colpa di Rebecca affonda le sue radici nel rimprovero dell'incesto, anche prima che Kroll con perspicacia analitica, la rendesse consapevole di questo. Se ricostruiamo il suo passato, ampliando e completando i cenni dati dall'autore, possiamo essere certi che ella non può non aver avuto sentore della relazione intima tra sua madre e il dottor West. Deve averle fatto una grande impressione l'aver sostituito la madre nei rapporti con quest'uomo. Ella era sotto il dominio del complesso di Edipo, anche se non sapeva che questa fantasia universale nel suo caso era diventata realtà. Quando andò a Rosmersholm, la forza interna di questa prima esperienza la spinse a determinare, mediante un'azione vigorosa, la stessa situazione che si era realizzata la prima volta senza che lei avesse fatto nulla: liberarsi della moglie e madre, perché potesse prendere il suo posto col marito e padre. Ella descrive con convincente insistenza come, contro la propria volontà, fosse stata costretta a procedere, passo dopo passo, a rimuovere l'ostacolo rappresentato da Beata.

«Voi pensate dunque che io sia stata fredda e calcolatrice e che abbia conservato la padronanza di me per tutto questo tempo! Allora non ero la stessa donna di adesso, la donna che vi sta di fronte e vi sta raccontando tutto. Inoltre, ci sono due tipi di volontà in noi, credo! Io volevo che Beata scomparisse, in un modo o nell'altro; ma non ho mai creduto veramente che sarebbe successo. Mentre andavo avanti a tastoni, ad ogni passo che osavo fare, mi sembrava di udire dentro di me un grido: "Non più! Neppure un altro passo!". E tuttavia io non potevo fermarmi. Dovevo osare almeno un altro po'. Ancora un filo di capello. E poi un altro - e sempre un altro. E quindi è successo. - Ecco come vanno certe cose.»

Non è un abbellimento ma una descrizione autentica. Tutto ciò che le è accaduto a Rosmersholm, il suo amore per Rosmer e l'ostilità per la moglie di questi, fu sin dall'inizio una conseguenza del complesso di Edipo - un'inevitabile replica delle sue relazioni con la madre e con il dottor West.

E pertanto il senso di colpa che le fa respingere la prima volta la proposta di Rosmer in fondo non è diverso da quello maggiore che la spinge alla confessione dopo che Kroll le ha aperto gli occhi. Ma come sotto l'influenza del dottor West era diventata una libera pensatrice, sprezzante della moralità religiosa, così dall'amore per Rosmer è trasformata in un essere coscienzioso e nobile. Questa parte dei processi mentali che avvengono in lei, ella la capisce da sé, e perciò è nel giusto quando indica l'influenza di Rosmer come il motivo della sua trasformazione - motivo che le era divenuto accessibile.

Il medico che pratica la psicoanalisi sa quanto spesso, o quanto comunemente, una ragazza che entri in una casa come serva, dama di compagnia, o governante, consciamente o inconsciamente sogni ad occhi aperti (e questo deriva dal complesso di Edipo) che la padrona di casa scompaia e il padrone prenda la nuova venuta come moglie al suo posto. Rosmersholm è la più grande opera d'arte tra quante trattano l'argomento di questa fantasia comune tra le ragazze. Ciò che la trasforma in un tragico dramma è la circostanza particolare che il sogno ad occhi aperti è stato preceduto nell'infanzia dell'eroina da una realtà corrispondente nel modo più preciso 5 (La presenza in Rosmersholm del tema dell'incesto è stata già dimostrata con gli stessi argomenti miei da Otto Rank nel «Das Inzest Motiv» in Dichlung und Sage, 1912).

Dopo questa lunga digressione nella letteratura, ritorniamo all'esperienza clinica, ma solo per stabilire in poche parole il completo accordo che esiste tra di esse. Il lavoro psicoanalitico ci insegna che le forze della coscienza che determinano la malattia in conseguenza del successo, invece che, come dovrebbe avvenire, in conseguenza della frustrazione, sono strettamente connesse al complesso di Edipo, la relazione col padre e con la madre - così come è forse connesso, in verità, il nostro senso di colpa in generale.

3. I criminali per senso di colpa

Nel parlarmi della loro prima giovinezza, e in particolare del periodo precedente alla pubertà, persone che in seguito sono in gran parte divenute rispettabilissime mi hanno informato di azioni proibite commesse in quel periodo - come furti, truffe e perfino incendi dolosi. Io avevo l'abitudine di accogliere queste dichiarazioni dicendo che conosciamo bene la debolezza delle inibizioni morali di quel periodo della vita, e non tentavo minimamente di inquadrarle in un contesto più significante.

In seguito, tuttavia, fui spinto a fare studi più profondi su tali incidenti proprio perché in alcuni casi vistosi e più accessibili i misfatti erano stati commessi da pazienti, non più giovani e sotto trattamento. Il lavoro analitico allora portò alla sorprendente scoperta che tali atti erano compiuti soprattutto perché erano proibiti, e perché il loro compimento era accompagnato da un sollievo mentale del soggetto. Questo soffriva di un opprimente senso di colpa di cui egli non conosceva l'origine e dopo aver commesso il misfatto questa oppressione era lenita. Il suo senso di colpa era almeno connesso a qualcosa.

Per quanto paradossale possa sembrare, devo dire che il senso di colpa esisteva già prima del misfatto. Non era quello a sorgere da questo, ma al contrario, il misfatto sorgeva dal senso di colpa. Queste persone si potrebbero definire a ragione criminali per un senso di colpa. La pre-esistenza del senso di colpa era stata naturalmente dimostrata da tutta una serie di altre manifestazioni ed effetti.

Ma la scienza non si appaga della scoperta di un fatto curioso. Ci sono altre due questioni a cui dover rispondere: qual è l'origine di questo oscuro senso di colpa precedente il misfatto; ed ancora: è probabile che questo genere di causalità giochi un ruolo considerevole nel delitto umano?

L'esame della prima questione prometteva di darci informazioni sulla fonte del senso di colpa dell'umanità in generale. Il lavoro analitico dimostrava invariabilmente che questo oscuro senso di colpa derivava dal complesso di Edipo ed era una reazione ai due grandi desideri criminali di uccidere il padre e di avere rapporti sessuali con la madre. In paragone a questi due, i crimini commessi per fissare il senso di colpa a qualcosa giungevano come un sollievo per i malati. Dobbiamo ricordare a questo proposito che il parricidio, e l'incesto con la madre sono i due grandi crimini umani, i soli che, come tali, sono perseguiti e aborriti nelle comunità primitive. E dobbiamo ricordare, altresì, quanto altre indagini ci abbiano portati vicino a formulare l'ipotesi che la coscienza dell'umanità, la quale ora ci appare come una forza mentale ereditata, fosse acquisita in connessione col complesso di Edipo.

Per rispondere alla seconda questione dobbiamo andare oltre lo scopo del lavoro psicoanalitico. Coi bambini è facile vedere che essi sono spesso «cattivi» deliberatamente, proprio per provocare la punizione, e sono quieti e contenti dopo essere stati puniti. L'ulteriore indagine analitica può spesso metterci sulle tracce del senso di colpa che li ha indotti a cercare la punizione. Tra i criminali adulti dobbiamo senz'altro eccettuare coloro che commettano crimini senza alcun senso di colpa, i quali o non hanno sviluppato inibizioni morali o nel loro conflitto con la società, si considerano giustificati per l'azione commessa. Ma riguardo alla maggioranza degli altri criminali, coloro per cui sono effettivamente destinate le misure punitive, una motivazione del genere potrebbe ben essere presa in considerazione; potrebbe gettar luce su alcuni punti oscuri della loro psicologia, e fornire alla punizione una nuova base psicologica.

Un amico ha richiamato la mia attenzione sul fatto che il «criminale per senso di colpa» era noto anche a Nietzsche. La pre-esistenza del senso di colpa e l'utilizzazione di un atto per razionalizzare questo sentimento traluce nei detti di Zarathustra «Sul Criminale Pallido». Lasciamo alla ricerca futura decidere quanti criminali appartengono a quelli «pallidi».